Trasparenza della filiera produttiva #2:
il lungo viaggio di una t-shirt

Di Giada Scarfò e Guya Manzoni

*Leggi la prima parte di questo articolo qui!

La richiesta di sostenibilità è diventata ormai immancabile nel mercato, soprattutto in quello della moda, e la risposta dei marchi sembrerebbe assecondare: capsule collection e campagne pubblicitarie che si vendono come “green” sono ormai presenti in ogni negozio. 

Tutto questo illude noi consumatori di una presa di coscienza, almeno apparente, dei grandi colossi del fashion, facendoci credere che acquistare da loro sia cosa buona e giusta: ma la realtà è ben diversa. 

Spesso queste odi alla sostenibilità non sono altro che strategie di marketing definite “green-washing” applicate dai brand per diffondere all’interno dell’opinione pubblica un’immagine di sé “etica e sostenibile”. 

VERDE… DAVVERO?

Tradotto in italiano il termine “green-washing”, infatti, vuol dire letteralmente “lavaggio verde”, indicando, in maniera simbolica, un lavaggio delle menti dei consumatori, che ha lo scopo di migliorare l’immagine del brand, e offuscare la vista sul reale impatto che queste aziende hanno sull’ambiente e sulla società. 

crediti immagine: Zara

Tutto questo fa leva sulla mancanza di informazione in merito a come questi capi vengono realmente prodotti: dovendoci basare unicamente sulla fiducia, e peccando talvolta anche di superficialità, diventa facile per i grandi marchi convincere con etichette verdi e campagne pubblicitarie cantilenanti. Un esempio che calza a pennello è la campagna “Join life” di Zara. Questa, infatti, mette in risalto la sostenibilità delle fibre dei capi all’interno della linea (che certe volte lo sono addirittura solo per una piccola percentuale), vendendo i suoi prodotti come green. 

Questo riporta la problematica al suo punto di partenza, con la fatidica domanda: come fa questa maglietta a costare solo 6 euro?

Presa coscienza però del fatto che la responsabilità è dell’azienda che produce, ma anche della persona che compra, la seconda importante domanda da porsi è: come agire per fare veramente la differenza?

Rivedendo le nostre modalità di consumo, innanzitutto. E poi chiedendo con fermezza ai brand di raccontare la realtà dei fatti, senza storie e senza fronzoli. 

“Non c’è bellezza senza verità e non c’è verità senza trasparenza.”

Carry Somers

Come sostiene in una sua celebre frase una delle fondatrici di Fashion Revolution, movimento internazionale che si batte per i diritti dei lavoratori nel settore moda, è necessaria la verità per raggiungere la consapevolezza.  Arrivare a questa verità però è tutt’altro che scontato.

La filiera produttiva della moda è un sistema complesso ed articolato, costituito da una catena frammentata di più attori che agiscono al suo interno. Complice anche la delocalizzazione (ovvero lo spostamento di alcune fasi della produzione in altri paesi che presentano vantaggi economici competitivi) diventa sempre più difficile per i marchi identificare con esattezza tutti gli elementi che stanno dietro all’intero processo produttivo di ogni singolo prodotto, finendo così per ignorarli, tralasciando però anche tutte le conseguenze che ogni singolo procedimento comporta.

Basta anche solo una semplice t-shirt di cotone, in tutta la sua apparente banalità, per mostrare quanto la filiera della moda sia complessa.

UNA SEMPLICE T-SHIRT RACCONTA LA COMPLESSITÀ

Inizia tutto con la produzione della materia prima: il cotone.
I primi paesi al mondo produttori di tale fibra sono la Cina con circa 18 milioni tonnellate annue nel 2018 e l’India con circa 15 milioni. È noto come questi paesi vengano spesso meno al rispetto di tutte le norme sulla sicurezza e alle regolamentazioni sull’impiego di pesticidi. I fornitori non vengono quasi mai indicati e dunque noi consumatori non abbiamo modo di sapere la provenienza della fibra, che spesso proviene proprio da questi paesi.

Come è stato coltivato il cotone? Quali sostanze sono state utilizzate che possono nuocere all’ambiente e a me che l’indosso? Quali sono le condizioni di lavoro di chi coltiva? Ecco un paio di domande, fra le tante, che dovremmo porci.

Seguono poi tutte le fasi di pulitura e filatura della fibra per ricavare il filo, che vengono svolte nella maggioranza dei casi in altre aziende rispetto a quelle che hanno coltivato la materia prima. Anche qui: come, dove, con quali strumenti e sostanze, con quali condizioni di lavoro?

Si passa poi alla tessitura del filo, che avviene a sua volta in aziende specializzate, richiedendo dunque ulteriori delocalizzazioni.  

Siamo solo ad inizio processo abbiamo già dovuto affrontare ben tre passaggi in tre industrie distinte: quella agricola, quella del filato e quella della tessitura, ottenendo solamente il tessuto greggio. 

Terminata la tessitura si passa poi ai finissaggi, ovvero dei trattamenti che conferiscono al capo un aspetto adeguato alla vendita. Di questa categoria fanno parte anche le nobilitazioni: processi atti a “nobilitare”, cioè a migliorare l’aspetto del tessuto rendendolo più morbido, stabilizzato, adatto ai lavaggi, etc. Ogni nobilitazione avviene in aziende specializzate, di conseguenza maggiori saranno le caratteristiche da dare, maggiori saranno le delocalizzazioni e le movimentazioni del tessuto, e più complesso sarà il processo produttivo.

Queste sono innumerevoli e a questa enorme famiglia appartiene anche la tintura, condannato come uno dei processi più inquinanti dell’industria tessile. C’è da specificare infatti le nobilitazioni prevedono un uso massiccio di agenti chimici inquinanti: anche solo il bianco candido di una semplice t-shirt necessita di litri e litri d’acqua e coloranti (si tinge di bianco, lo sapevate?!) che vengono poi dispersi in mare, andando a contaminare l’intero ecosistema.

Ancora solo a metà produzione della maglietta la filiera si presenta già come estremamente ramificata.

Si passa poi alla fase di taglio e confezione del prodotto: mentre la fase di progettazione del capo avviene negli uffici stile del Nord del mondo, anche questi passaggi vengono realizzati in paesi del Sud del mondo, dove lo sfruttamento della manodopera e il lavoro minorile sono all’ordine del giorno, e non adeguatamente regolamentati.  

fabbrica abbigliamento fast fashion

RAPPRESENTANZA E DIRITTI NEGATI

Un grave problema di questi paesi è la mancanza o comunque l’estrema debolezza della rappresentanza collettiva.

A livello politico, manca o è del tutto insufficiente la capacità dei sindacati di interfacciarsi con le aziende e con le istituzioni per tutelare i diritti dei lavoratori e anzi, in molti casi l’adesione a un sindacato è visto come atto di ribellione condannabile: se ti iscrivi a un sindacato, e chiedi tutela, perdi il lavoro, la fonte di sopravvivenza tua e della tua famiglia.

Nel nord del mondo occidentalizzato, nella nostra epoca, siamo abituati a dare per scontata la libertà di poter aderire a un sindacato o a uno sciopero, lo consideriamo un diritto, e tendiamo a minimizzare l’impatto sociale di questo dialogo, il suo significato e la sua funzione politica: il fatto che per noi sia scontato poterlo fare, ci impedisce spesso di realizzare e consapevolizzare che questo diritto non è di tutti.

Proprio per questo motivo la famosa delocalizzazione avviene in questi paesi: la mancanza di tutela permette alle aziende di dettare legge, guidate ancora una volta dal profitto ad ogni costo.

Perché la nostra famosa maglietta continui a costare 6 euro, è necessario che i prezzi vengano abbattuti: ecco che questo corrisponde a salari che non garantiscono quasi mai una vita dignitosa (il cosiddetto “Living Wage”), ad abusi e discriminazioni che fanno parte della quotidianità e a condizioni lavorative insalubri, pericolose e inadeguate. 

Uno degli esempi più significativi che ancora oggi ricordiamo è la tragedia del Rana Plaza, avvenuta il 24 Aprile del 2013 nel distretto di Dacca, in Bangladesh.
Quel giorno una palazzina adibita ad industria tessile già segnalata come pericolante dagli stessi lavoratori crollò, travolgendo migliaia di lavoratrici e lavoratori al suo interno.
La tragedia causò più di mille vittime e più del doppio di feriti, mostrando allo sprovveduto e inconsapevole occidente cosa significhi recarsi ogni giorno in un luogo di lavoro che può trasformarsi in una trappola mortale.
Nel complesso lavoravano circa 5.000 persone, producendo capi di abbigliamento per marchi come, fra gli altri, Benetton, Camaïeu, Zara, Bershka, Pull and Bear, Oysho, Stradivarius, Kappa, Mango, Primark.
Da allora diversi movimenti e associazioni internazionali hanno attivato campagne politiche per convincere questi marchi che, davanti alla tragedia, si rifiutarono per anni di risarcire i lavoratori delle loro perdite.

Se proseguiamo il viaggio nel processo produttivo della nostra t-shirt, si passa poi alla preparazione del capo per la vendita, attraverso vari passaggi: stiro, imbusto, imballaggio: altri fornitori esterni, altre movimentazioni di merci, ancora delocalizzazione.

Il percorso si conclude con le varie spedizioni a magazzini, punti vendita o clienti, che avvengono nella quasi totalità dei casi per mezzo di intermediari, coprendo lunghissime distanze. In questa fase è importante considerare l’impatto ambientale degli imballaggi (miliardi di grucce e buste di plastica, utilizzate giusto per il tempo del trasporto e poi buttate; ne avevamo parlato qui) e le enormi quantità di emissioni dovute ai trasporti, il cui costo ambientale, evidentemente, non può essere incluso nei famosi 6 euro.

Ecco quindi come una semplice t-shirt sia di aiuto per dimostrare quanto la produzione nel mondo della moda sia complessa, e come sia complesso ottenere trasparenza lungo tutta la sua filiera. 

INFORMARSI PER CAPIRE E PER AGIRE!

Una soluzione a tutto questo però esiste, e risiede nell’informazione. 

Con l’emergere della problematica sulla moda sostenibile (detta anche fashion sustainbilty issue) sono nate numerose fondazioni, campagne, associazioni e movimenti che quotidianamente lottano proprio per il raggiungimento di una filiera della moda più etica e giusta.

Tra le più note vi è la Clean Clothes Campaign , attiva in 45 diverse nazioni dal 1989, che si batte per la tutela dei diritti dei lavoratori del settore moda. A Partire dal 2016 l’organizzazione ha presentato la sua posizione alla Commissione Europea sulla trasparenza con lo scopo di raggiungere gli obiettivi indicati al suo interno. È presente anche la sezione italiana che quotidianamente pubblica aggiornamenti sulla situazione della trasparenza nel settore. 

Un altro movimento fondamentale è la campagna Fashion Revolution. Nata come conseguenza alla tragedia del Rana Plaza nel 2013, l’organizzazione si occupa di mobilitare cittadini, brand e governi verso una visione più sostenibile dell’industria della moda per mezzo del patrocinio e dell’informazione. A questo movimento dobbiamo la nascita della famosa campagna di sensibilizzazione #whomademyclothes. A partire dal 2014, poi, Fashion Revolution pubblica il Fashion Transparency Index, documento per mezzo del quale classifica i più grandi brand del settore, valutando quanto gli stessi siano disposti a fornire informazioni sui loro produttori e sugli impatti della loro filiera.

Tutto queste azioni hanno lo scopo ben preciso di informare i consumatori, dando loro dati concreti, oggettivi e facilmente reperibili su quanto i marchi dai quali acquistano sia effettivamente affidabili, fornendo loro gli strumenti per acquisire maggior consapevolezza. 

Il tema della trasparenza necessita ancora di enormi sforzi da parte di aziende e governi, cui è necessario chiedere un impegno formale concreto e definitivo.

Le realtà che si battono per questo sono ancora poche e conosciute solamente da piccole nicchie di persone; ciò nonostante, le informazioni sono disponibili, anche grazie ai nuovi e più veloci mezzi di comunicazione.

Sfruttare questi strumenti è necessario per dimostrare che è possibile costruire una nuova realtà, fatta di equità, sostenibilità e consapevolezza, capace di innescare quel cambiamento di cui la moda (e non solo) ha bisogno. 

“La trasparenza è un primo step, non è radicale, ma è necessario”

Fashion Revolution

Crediti Immagini: 1 Join Life, Zara; 2, 3, 4, 5 Pinterest; 6,7 Clean Clothes Campaign; 8 Fashion Revolution

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